19 novembre 2010 20:53

Il Dictionnaire des idées réçues di Flaubert ha inaugurato un genere letterario meraviglioso: lo sciocchezzaio, il repertorio di luoghi comuni. Dopo di lui Léon Bloy e Karl Kraus, Paul Valéry e Arthur Schopenhauer sono stati gli insuperati cataloghisti e fustigatori delle banalità e dei cliché correnti. Eppure, in tutto il repertorio di Flaubert i luoghi comuni che riguardano il libro e la lettura si contano sulle dita di una mano. Il più diretto è questo: *Libro - Qualunque esso sia, sempre troppo lungo. *Poi qualcosa sul carattere ozioso dei letterati, sui benefici e i danni della stampa, e poco altro.

Qualcuno dovrebbe incaricarsi di colmare questa lacuna, dedicando un libro intero al censimento delle banalità che si dicono intorno ai libri. Per parte mia, confesso, non ho il tempo né la voglia di imbarcarmi nel proverbiale «sporco lavoro che qualcuno deve pur fare». Forse la cosa migliore è farne un’opera collettiva. Dunque, mi limiterò a segnalare i primi luoghi comuni che mi vengono in mente. E se avrete la bontà di suggerirmene altri, sarò ben lieto di aggiornare l’elenco.

Io i libri li finisco per principio, non li lascio mai a metà. Lo si sente dire spesso, ed è piuttosto stupido. Perché accanirsi a leggere un libro orrendo? Per un malinteso senso d’orgoglio, per spirito di disciplina, per sfida a sé stessi? O - peggio ancora - per il semplice fatto che lo si è comprato? «Ho speso tredici euro per Acido solforico di Amélie Nothomb, a questo punto lo leggo fino in fondo». Che è esattamente come dire: «Ho buttato del denaro, ora per pareggiare i conti devo buttare anche del tempo». Non vi daranno indietro né l’uno né l’altro.

  1. Quest’estate ho riletto la *Recherche (specie se detto da un under 35). Ho un caro amico che ha riletto davvero la *Recherche. Si chiama Alberto Beretta Anguissola, non è più propriamente un ragazzino, e soprattutto ha curato l’apparato di note a Proust per l’edizione dei Meridiani, quella tradotta da Raboni. Tutti gli altri (o quasi), se vi dicono una frase simile, sono dei millantatori, dei parvenu, dei bulletti culturali. I classici sono in numero così grande che, anche quando avremo cent’anni, ce ne saranno a migliaia da leggere e scoprire per la prima volta. E aggiungo: meno male. Il primo post nella storia di UnPopperUno, I misteriosi meriti dell’asino, parlava proprio di questo.

  2. La trama non mi interessa, mi interessa il modo in cui è raccontata. Anche questa non c’è male, quanto a stupidità. Generalmente a dirla sono coloro che ostentano disprezzo verso quella che un tempo si chiamava paraletteratura (gialli, thriller & co.). Sono fieri della loro impermeabilità alle rivelazioni sul finale o perfino sul nome dell’assassino, a segno della loro superiore nobiltà di lettori. E però, che visione frigida e angusta della letteratura! Toglie valore non solo alla creazione di una bella trama, che non è cosa da poco, ma anche alla dispositio - al modo, al tempo e all’ordine con cui il testo sceglie di rivelarci i suoi segreti; tutti elementi che hanno la funzione di accompagnarci lungo il percorso emotivo che l’autore ha predisposto per noi. Se mi dici per filo e per segno come andrà a finire, mi privi anche della possibilità di compiere quel percorso. E il piacere del testo va a farsi benedire.

  3. L’amore per i libri e la cultura unisce le persone. Trattasi di veltronata galattica, anche se è più antica di Walter Veltroni e senz’altro gli sopravviverà. Ottima per trasmissioni radiofoniche o televisive più o meno marchettare sulle novità editoriali, o per sdolcinati elenchi del duo Fazio-Saviano. Che dire? Come opporsi a questa visione irenica e amorevole senza passare per guastafeste? A ben vedere, è una di quelle banalità misticheggianti che Kraus pur volendo non avrebbe potuto censire, perché al suo tempo la cultura non era ancora un giocattolone, ma qualcosa per cui ci si scannava, si tessevano o rompevano amicizie, si scatenavano battaglie. La cultura che unisce al di là degli steccati ideologici e nazionali è la cultura omogeneizzata e innocua, la cultura decorativa, insipida, annacquata, la «grande chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa». In breve, è la cultura degli adulti con riserva: We are the world, we are the children.

  4. *I soldi spesi per i libri sono sempre soldi ben spesi. * Di questo è perfino superfluo fare l’esegesi e la confutazione: meglio un buon assortimento di salumi e formaggi, un bel corredo di biancheria intima, un aquilone, una manina gratta-schiena dell’opera omnia di …………….. (il lettore riempia lo spazio a suo piacimento).

6.* Quanti libri che hai: li hai letti tutti? *A questo ha pensato Umberto Eco: «Io un tempo avevo adottato la risposta sprezzante: “Non ne ho letto nessuno, altrimenti perché li terrei qui?”. Ma è una risposta pericolosa perché scatena l’ovvia reazione: “E dove mette quelli che ha letto?”. Migliore è la risposta standard di Roberto Leydi: “Molti di più, signore, molti di più”, che gela l’avversario e lo piomba in uno stato di stuporosa venerazione. Ma la trovo impietosa e ansiogena. Ora ho ripiegato verso l’affermazione: “No, questi sono quelli che debbo leggere entro il mese prossimo, gli altri li tengo all’università”, risposta che da un lato suggerisce una sublime strategia ergonomica, e dall’altro induce il visitatore ad anticipare il momento del congedo».

  1. Non ho letto Melville, e me ne vergogno profondamente. La vergogna per le proprie manchevolezze è sentimento all’apparenza molto nobile. In questo caso però nasce dalla vanità, e dalla scelta di sottostare al potere ricattatorio del branco (culturale). Nel film di Woody Allen, se ricordate, Zelig comincia a diventare un camaleonte perché si vergogna di ammettere che non ha letto Moby Dick. Non è l’umiltà a muovere queste confessioni: è l’ambizione, l’arrivismo, l’orgoglio. Liberiamocene finché siamo in tempo e cominciamo a vergognarci, che so, perché abbiamo trattato male il nostro vicino di casa o siamo stati bruschi e impazienti con il cameriere che tardava a portarci il dessert.

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